Il tema è tratto dal libro che descrive la ricerca “Le Dieci Strategie Evolutive” di Scienze delle Abilità Umane. Un’area di studio di alta scuola che delinea un inedito modello vincente per i leader di nuova generazione. Con il prossimo calendario partirà il percorso di studio “Le dieci strategie evolutive” e questo articolo vuole presentare questo nuovo tema.
La strategia di colpire la reputazione nella competizione è molto comune, ma è solo uno dei molti “giuochi” sporchi che incontriamo quotidianamente. Conoscerli, pulirli, bandirli dalla propria espressione e dalle proprie relazioni è quanto mai necessario per una vita degna di essere vissuta.
La competizione e la reputazione sono temi densi di implicazioni sociali e di complicazioni relazionali. Le abilità di relazione e i tipi di competizione che si possono usare, sono uno studio tanto attuale quanto rovente: complica la vita dei bambini e dei giovani, ed è un terreno minato anche per i genitori e per gli insegnanti che non possono esimersi dal dare un esempio su questo fronte delicato. Fare il tifo a bordo campo in una partita in cui i figli giocano a calcio, può trasformarsi in una azione educativa positiva come in un evento disastroso. Alcuni insegnanti e genitori mi hanno chiesto di tenere una lezione su questo tema e di dare un contributo dal mio punto di vista di insegnante della della Scuola delle Abilità. Ho accolto molto volentieri l’invito in quanto l’uso del disvalore come strumento coercitivo nella competizione è una dinamica molto comune e capillarmente diffusa in tutte le categorie esistenziali e in tutte le età.
La competizione è un processo naturale, parte integrante dalla stessa dinamica evolutiva finalizzata alla sopravvivenza del singolo, delle nostre comunità di appartenenza e della nostra specie. La competizione è un’espressione della nostra biologia e della nostra psicologia relazionale e sociale. La competizione inizia a manifestarsi precocemente ed è un campo molto variegato e articolato con innumerevoli direzioni e potenziali sviluppi. Lasciare lo sviluppo al caso, come si suol dire, “alla natura”, non è affatto garanzia di un buon esito di tale pulsione primaria: deve essere invece compresa, coltivata ed evoluta in un’abilità intenzionale e consapevole. La competizione andrebbe scelta perchè ritenuta atta a conferire il successo della persona in una dimensione sociale senza essere lesiva all’interno del proprio gruppo di appartenenza.
Senza uno studio sulla competizione, come abilità personale e sociale, difficilmente si emerge in una società estremamente competitiva e incline alla conflittualità. Senza uno studio appropriato e uno sviluppo delle abilità per competere, sarà inevitabile venire coinvolti e travolti nei “ring” delle competizioni lesive. Sarà molto facile intraprendere “la via oscura “che porta ad ingannare e manipolare, ferire e tradire i propri simili. Inesorabilmente e fatalmente si finirà per essere corruttibili: corruttori o corrotti. Un pericolo diverso, ma non meno preoccupante, è la mancanza di volontà e di ambizione con la conseguente scelta di non competere come strategia di vita.
La logica sottostante è tanto semplice quanto autodistruttiva: se non sono ambizioso, non competo. Se non competo evito sia lo scontro sia la possibilità di essere ferito e soprattutto di fallire, perciò preferisco non volere veramente niente. La logica è perfetta nella sua funzionalità. Se una persona riesce a soffocare la sua ambizione, disinnesca la sua volontà e di conseguenza si priva della possibilità di raggiungere qualsiasi meta; otterrà però il risultato di evitare ogni conflitto competitivo.
Questa strategia provoca una falla enorme nella barca della vita che non raggiungerà mai la sua destinazione: la completezza esistenziale.
“La barca è fatta per navigare” dice un famoso detto, non certo per rimane in porto per tutta la durata della sua lunga vita. La strategia in cui si rinuncia a combattere per i valori e gli scopi della propria vita, evita la salita pericolosa della competizione, ma solo per finire nel burrone dell’insoddisfazione.
Il pensiero che considera la competizione una dinamica negativa è molto diffusa, più di quanto si creda. Questo approccio non la nega del tutto, ma solo la giudica negativa e in alcuni casi la demonizza conferendole addirittura connotati amorali. Lo scopo recondito di questo approccio era e rimane tutt’ora formare persone docili, prive di ambizione, “svirilizzate”, molto adatte a creare personalità non completamente autonome nell’assumersi la responsabilità della propria vita.
Intendo perciò attivare alcune riflessione utili e costruttive su un aspetto cruciale della competizione: la reputazione.
Iniziamo con delle domande, il modo migliore per sviluppare la propria autoanalisi.
Domande & Riflessioni:
Che cosa è per te la tua reputazione?
Come vorresti che sia la tua reputazione?
Quale reputazione pensi di avere nelle cinque persone più importanti della tua vita?
Definisci la reputazione per ognuno delle tue cinque persone più importanti per te.
Che cosa secondo te ha provocato una tua cattiva reputazione?
Che cosa ha contribuito a formare una buona reputazione?
Hai bisogno di una buona reputazione?
Puoi vivere con una cattiva reputazione?
Puoi vivere ignorando l’elemento della reputazione?
Quando e perché colpisci la reputazione degli altri?
Quando e perché gli altri colpiscono la tua reputazione?
Cosa pensi di ottenere colpendo la loro reputazione?
Cosa pensano di ottenere quando gli altri colpiscono la tua reputazione?
Chiedi ad un altro importante per te:
1″Cosa posso fare perché tu possa avere di me una buona reputazione?
2″ Posso dirti come puoi avere di me una buona reputazione?
Perché la reputazione è un punto centrale nella competizione?
L’aspetto positivo della reputazione nella competizione è noto: amplifica le abilità e le doti di una persona. Risulta meno conosciuto anche se è molto praticato, l’aspetto negativo della reputazione nella competizione che si fonda sul principio che nulla è più facile, e allo stesso tempo potente per vincere la competizione, del colpire la reputazione dell’altro: svilire, svalutare, disistimare qualcuno lo rende incapace di competere al meglio.
Quando e come si forma la strategia competitiva di colpire la reputazione? Anche se i genitori non sono inclini a competere con le figlie e i figli, a parte qualche sporadica eccezione in adolescenza, la dinamica può essere appresa come modello di relazione famigliare quando mamma e papà la usano tra di loro. Possiamo trovare le origini della competizione nella fase precoce della formazione della persona, quando mamma, papà, sorelle e fratelli colpiscono il valore del bambino.
La dose più cospicua di disvalore che un bambino riceve, sovrageneralizzando la questione, non è in ambito famigliare, ma scolastico. Le relazioni a scuola, tra gli studenti sono oggi spesso inquinate da un fenomeno che ahimè non viene adeguatamente considerato: prendersi in giro, deridersi, colpire il valore e l’espressione dell’altro. In una sola parola usare il disprezzo come strumento di relazione finalizzato ad ottenere uno scopo, spesso neanche consapevole e tantomeno dichiarato.
Cosa si desidera ottenere con il disprezzo, il disvalore? Si intende ferire, colpire preventivamente l’altro in modo da indebolirlo e renderlo in futuro incapace di competere alla pari. Dato che questo avviene tramite le parole, gli atteggiamenti e i sentimenti, non viene considerato un atto lesivo preoccupante e non viene collocato come dovrebbe nella categoria del bullismo vero e proprio. Si afferma così, spesso in tenera età, un‘azione in cui “disprezzare l’altro” diviene strumento competitivo per emergere e vincere sull’altro. Chi approda con questo modello alla maturità della sua persona sarà tentato di colpire la reputazione degli altri all’interno delle sue inevitabili e altrettanto necessarie competizioni.
Il modello di competizione culturale che emergerà nelle dinamiche sociali, economiche e politiche, saranno improntate a colpire i competitori per renderli più deboli. Invece di impegnarsi e concentrarsi sull’essere migliore, l’attenzione scivola da sé all’altro, e dal migliorarsi al rendere peggiore l’altro.
Colpire l’altro diventa prioritario e migliorarsi per vincere nella competizione secondario. Si afferma una dinamica competitiva lesiva e negativa per la comunità di appartenenza: “È più importante che l’altro perda, rispetto a che io vinca.”
Perché avvenga la competizione leale, è necessaria una personalità più complessa, oserei dire più evoluta rispetto a chi opera con lo strumento del conflitto.
Infatti nel campo del suo interesse esistenziale, la persona ha maturato il bisogno di un CODICE ETICO. Il processo e il lavoro necessario per dotarsi di questo nobile requisito personale e relazionale, capace di guidare il comportamento umano, non è casuale, ma il prodotto di un forte impegno intenzionale e consapevole. Un codice etico non si eredita né si assume con una scelta razionale. Il codice etico di una persona rappresenta il suo sistema valoriale effettivo, ciò descrive il suo comportamento.
Una personalità dotata e caratterizzata da un codice etico è da considerare un’alta conquista di civiltà.
In questo caso, oso suddividere le persone in tre grandi categorie:
1 Chi opera con un codice
2 Chi non possiede un codice etico, anche se spesso non ne è del tutto privo. Egli possiede comportamenti e abitudini sociali acquisiti in modo automatico, ma non possiede una gerarchia di valori consapevoli e con i quali ordina e guida il proprio comportamento.
3 Chi possiede il proprio codice, ma risulta impotente nell’agire con coerenza. Questo accade perché la persona, per varie ragioni, non comunica il proprio codice etico agli altri e per questo non può essere condiviso.
Oggi osserviamo personalità dotate di pseudo codici valoriali, incapaci di tradursi nel carattere e di definire un comportamento stabile e duraturo nel tempo. Il codice che si dichiara, è molto spesso un’apparenza che ha il compito di agevolare le intenzioni nascoste piuttosto che le finalità dichiarate.
Un codice fasullo e apparente è come un’esca che copre l’amo della competizione lesiva e sleale. Persone e aziende raramente riconducono il proprio comportamento ad un vero codice etico: se lo dichiarano è più probabile che serva per predisporre e indurre il cliente a realizzare il guadagno che deriva dalla relazione.
Incontrare dunque una competizione sleale è altamente probabile, oserei dire certo nell’arco della propria vita. La competizione sleale può avvenire in molti modi. Uno, particolarmente esecrabile, riguarda il colpire la reputazione dell’altro.
Perché si sceglie questo strumento di competizione piuttosto che un altro?
Quali sono gli elementi che fanno propendere per la scelta di questa dinamica?
I vari comportamenti che ho avuto modo di studiare, sono tutti riconducibili alla personalità aggressiva-passiva e alle sue due ragioni principali attraverso le quali agisce: LA PAURA E LA VILTÀ. La prima riguarda la sua impossibilità di confrontarsi in modo aperto e diretto: la diversità dell’altro gli appare tale che l’altro può essere solo demonizzato; più l’altro appare diverso e più gli risulta inconciliabile o inavvicinabile e dunque inaccettabile e incomprensibile. Tutto ciò gli suscita paura, e la paura suggerisce di colpire l’ESISTENZA dell’altro. Ma, l’oggetto che vorrebbe “non esistesse” perché inaccettabile, è anche inavvicinabile per cui è sia aggressivo sia completamente impotente nell’affrontarlo. Non resta quindi che mandare “un altro” a fare il lavoro sporco: il pregiudizio impregnato di disprezzo con il quale tenterà di colpire il suo avversario. L’unico modo in cui riesce a competere è colpire il valore e il diritto di essere del suo competitore, ovvero LA SUA REPUTAZIONE.
COLPIRE LA REPUTAZIONE
La paura e la viltà sono frutto di un profondo senso d’inadeguatezza esistenziale derivante dal sentirsi impotente. Il senso di impotenza, “io non riesco, io non so, io non posso” sono un mirino formidabile per la personalità aggressiva-passiva. Il mirino permette di trovare e colpire un unico bersaglio: la reputazione dell’altro. Colpendo la reputazione dell’altro non si vuole competere ma si vuole distruggere, annientare l’altro affinché non esista nessuna competizione.
La paura e la viltà suggeriscono di spostare il gioco dalla vera competizione per ottenere il fine, sugli attori della competizione dove può rimanere nascosta. Lo scopo della personalità aggressiva-passa è proprio di nascondere la propria impotenza di competere. Quando la paura e la viltà attanagliano il cuore ad esempio di un calciatore, invece di correre dietro al pallone per fare gol, correrà dietro al giocatore avversario per colpirlo e sperare che si faccia molto male affinchè non riesca più a giocare e risulti inutile alla sua squadra.
Nella personalità aggressiva-passiva il modo di “fare lo sgambetto” all’avversario è prevalentemente psicologico: diffamare, calunniare o semplicemente diffondere disinformazione associata al gossip che alimenta la critica, sono gli strumenti principali per colpire il valore di una persona.
Gli aggressivi passivi, coloro che nel gioco della competizione colpiscono la reputazione dell’altro, fanno ciò che fanno fondamentalmente per nascondere a se stessi e agli altri di essere impauriti e impotenti, incapaci di affrontare l’altro. Alcune persone con il tempo sono divenute così incapaci di competere, da sviluppare relazioni che possiamo definire ipercritiche e superinvasive nella vita degli altri con i propri giudizi.
I giudizi si sono dimostrati i migliori strumenti per colpire la reputazione degli altri.
Ecco allora, in un attimo, l’arbitro di una partita di calcio in cui la nostra squadra del cuore ha subito il gol diventare “cornuto” o in un condominio demonizzare e ostracizzare comportamenti assolutamente privati e ininfluenti per una corretta convivenza sociale. Il giudizio è talmente deleterio da inserire un articolo dedicato nella dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere colpito, per la propria opinione” (art.19 della dichiarazione universale dei diritti umani). Per quanto questo articolo sia noto, osservando la semplice realtà quotidiana non sembra che sia molto integrato a nessun livello. Urge allora fare qualcosa per non rimanere vittime di relazioni che usano il disprezzo (sentimento di risoluta, passionale o commiserante svalutazione nei confronti di persone o cose ritenute indegne o inferiori) e il disvalore (negazione o privazione di un valore) come strumento di competizione.
Il primo passo nell’affrontare gli aggressivi-passivi specializzati nell’introdurre il disprezzo nella relazione per colpire la reputazione, è riconoscerli come tali, chiamarli con il loro nome: queste persone non competono per ottenere qualcosa anche se così potrebbe sembrate, non competono per vincere, vogliono solo che l’altro perda, che l’altro non possa ottenere quello per cui lotta. “Non è possibile vincere nessun gioco con chi non gioca ad alcun gioco o gioca ad un gioco diverso dal tuo” (dalla Teoria dei Giochi)
Il secondo passo è smettere di giocare con loro e abbandonare il tavolo da gioco. Oh, sì loro si sentiranno vincenti perché dal loro punto di vista avrete abbandonato il campo, ma in verità sono solo rimasti soli.
Rifiutandovi di competere in una dimensione sleale, voi non avete perso. Avete scelto il vostro campo di gioco e il tipo di gioco con il quale volete spendere la cosa più preziosa che avete in assoluto: la vostra vita. Non avete tempo da sprecare per aver ragione, avete solo il tempo necessario di lottare per ottenere ciò che ritenete importante e di valore per la vostra vita.
“Scegli bene le tue battaglie dove lottare, e combatti. Riconosci quali non sono le tue battaglie e abbandona il campo: qui non ci sono vittorie per portare alla completezza la tua vita.”
Cosa comunica al mondo la persona che abbandona un avversario per cercarne un altro più ambizioso e realmente competitivo? Cosa accade a chi viene lasciato nella sua dinamica lesiva della reputazione altrui?
Ci vuole un po’ di tempo, ma alla fine la verità si afferma in molti modi.
Anche Cassius Clay (Mohammed Ali) si rifiutò di andare a combattere in Viet-Nam praticando una disobbedienza civile verso i governanti guerrafondai. Fu duramente colpito nella sua reputazione, una campagna mediatica denigratoria, una vera e propria macchina del fango si abbattè su di lui. Oggi il giudizio della storia è netto su quale sia stata l’azione nobile e chi abbia agito per interessi personali e lesivi nei confronti degli altri esseri umani.
Clay pagò il prezzo della sua scelta perché non volle essere indifferente e prese posizione rispetto alla competizione che lo aveva coinvolto, suo malgrado, preferendo fare l’atleta che imbracciare il fucile per uccidere perfetti sconosciuti. Continuò per la sua strada divenendo un simbolo di come si possa essere un campione della vita prima ancora che sul ring
Domande & Riflessioni:
1 Chi e quale gioco competitivo sleale avresti dovuto abbandonare in passato per volgere la tua attenzione-interesse da un’altra parte?
2 Chi e quale gioco competitivo sleale dovresti abbandonare oggi per volgere la tua attenzione – interesse da un’altra parte?
3 Chi compete con te lealmente? Con chi competi lealmente?
4 Chi ti ha colpito nella tua reputazione? Chi hai colpito nella sua reputazione?
5 Per cosa vorresti competere? Cosa vuoi ottenere?
6 Con quali regole vuoi lottare per ottenere i tuoi fini esistenziali?
Il terzo passo è lasciare “il tavolo da gioco in cui si colpisce la reputazione”. Dunque avere il coraggio di chiudere, ridurre o allontanarsi drasticamente dalla relazione in modo che la negazione del valore concluda la sua influenza maligna. Ci sono situazioni in cui risulta molto difficile cambiare il tavolo da gioco: è conveniente rimanere in relazione con chi “gioca” per colpire la reputazione dell’altro. Accade allora che prima si subisce il disvalore, e poi si diventa capaci di originare lo stesso trattamento verso gli altri. Sempre e in ogni modo si dovrebbe tentare di abbandonare la relazione in cui uno o entrambi fanno scorrere il disprezzo, la svalutazione, il sentimento che considera indegno e inferiore l’altro.
Il modello relazionale di subire il disprezzo e il disvalore senza fare nulla, nasce dalla difficoltà di operare un distacco dall’ingiustizia in cui si viene coinvolti: rimanere “dentro” a questa relazione serve a covare la vendetta che prima o poi arriverà nella stessa forma con la quale si è subita l’ingiustizia.
La soluzione è semplice: uscire dalla relazione.
Quando io mi trovo in queste situazioni mi dico: “Questo non è un vero competitore, questo non è veramente intenzionato o interessato ad ottenere alcun risultato. Interrompo ogni relazione con questo gioco e rivolgo la mia attenzione da un’ altra parte” .
Questo approccio non mi ha fatto evitare tutte le competizioni lesive e mi sono trovato spesso nel mirino degli aggressivi-passivi; mi ha però evitato di perdere tempo prezioso e di non investire risorse e speranze in situazioni inutili.
Con i progetti che ho scelto di perseguire, questo approccio mi ha fatto accelerare la mia crescita.
Spesso per sostenermi mi chiedo: “Ma io che cosa voglio veramente? Voglio avere ragione.., voglio dimostrare qualcosa…, non accetto l’ingiustizia…, voglio vendicarmi. … oppure voglio ottenere un determinato risultato? Quanto è importante con chi lo voglio ottenere? Quanto è importante cosa voglio ottenere? Che cosa è più importante: cosa voglio ottenere o con chi lo voglio ottenere?
La maggior parte delle volte riesco a rispondermi in modo coerente con la strategia suggerita e questo mi permette di andare avanti lasciandomi dietro ciò che comunque non mi avrebbe aiutato nel fare dei progressi reali verso la mie mete.
Un dono inaspettato sorride per chi persiste su questa via: arrivano le persone giuste per ottenere le cose giuste. Proprio quelle con cui realizzare i sogni della propria vita. Come Frodo, alla fine della saga dei Signori degli Anelli, potrete dire: “Arrivano le aquile, Arrivano le aquile”.