“Un uomo che non ha coraggio non può nemmeno essere onesto, perché l’onestà richiede sacrifici che il codardo non può sopportare, e richiede generosità che non può comprendere. “
-Jovan Ducic-
Parto da molto lontano perché non sono in grado di affrontare direttamente l’argomento del nostro momento acuto storico presente. Troppo polarizzato da qualsiasi punto di vista lo si guardi. Perciò tenterò di uscire dalla visione particolare per sovra generalizzare con l’unico scopo di provare ad essere sempre e comunque inclusivo. Con una frammentazione di diversità di visone e di interpretazioni è un tentativo di cogliere ciò che sta al di là dei “giochi” o narrazioni che ognuno legittimamente alimenta, diffonde e difende. Il mio punto di inizio è il tempo non sospetto dell’infanzia che tutti gli adulti attraversano. Gli equilibri e i rapporti tra amore e fermezza formano la personalità che poi elabora una risposta alla vita, alle sfide, alla diversità e ai conflitti.
Lo stimolo doloroso quando entra precoce nel processo educativo inizia a distorcere la personalità. Chi nel suo percorso esistenziale si trova definito con l’intervento di stimoli dolorosi si anestetizza, diventa incapace di empatia e perde una parte significativa di umanità. Gli altri, ai suoi occhi, allora perdono la centralità della relazione e diventano “oggetti” che si possono usare per realizzare i propri scopi. Le persone, da fini della relazione, diventano strumenti o mezzi per ottenere qualcos’altro.
“Anche se la finestra è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo” dice Alda Merini.
E io aggiungo: Il tipo di sguardo dipende in buona misura dagli stimoli dolorosi e sopraffacenti che una persona ha ricevuto nella sua fase precoce e formativa. Un amore immaturo o una eccessiva fermezza giocano un ruolo decisivo anche negli eventi sopraffacenti rendendoli impossibili da integrare e potenzialmente catastrofici. Se un bambino ha ricevuto nella giusta misura l’amore e la fermezza necessari per emergere, matura con relativa facilità e spontaneità la posizione di non ferire gli altri. Perché questo accada, oltre all’amore e alla fermezza ben calibrati, fondamentale è il contesto relazionale e più precisamente le dinamiche competitive che si instaurano con gli altri. Questi tre elementi giocano un ruolo decisivo nello sviluppare la sua empatia e di conseguenza tutto il potenziale della sua umanità. I tre elementi portano il bambino a divenire naturalmente incline ad usare tutta una serie di qualità come la compassione, la generosità, la comprensione e le innumerevoli abilità di relazione per ottenere ciò che desidera realizzare. Tuttavia anche maturando questo notevole e prezioso risultato è solo a metà di tale processo, perché deve anche ottenere un altro risultato: acquisire l’abilità, (perché ancora di abilità si tratta) di non essere ferito. Scegliere di non ferire è certamente una conquista importante, ma incompleta perché una simile persona può ancora incontrare chi questa scelta non l’ha ancora fatta e rimanere indifeso e subire la violenza dell’altro. Il dilemma è: come interagire con chi è lesivo avendo scelto di non esserlo? Come fermare l’altro che a causa della violenza subita non ha ancora maturato la sua empatia nei confronti degli altri? Più che un dilemma sembra un paradosso, è come dire: “come usando l’acqua posso asciugare i miei abiti bagnati?” Non si può! L’umanità in una persona che ha potuto maturare il suo senso di empatia, di unione e di appartenenza, sfocia nel comportamento della TOLLERANZA. La tolleranza concepisce un “NOI” più ampio, composto da un grado di diversità interna più grande.
Quando l’empatia non è ancora affiorata alla coscienza sfocia nel comportamento dell’aintolleranza. L’intollerante non solo non tollera la diversità ma polarizza fortemente il “noi” di appartenenza in confronto e in contrasto con tutti gli altri da cui si sente fortemente minacciato. L’intollerante sviluppa un sensore alterato nelle sue relazioni percependo nemici e ostilità in qualsiasi entità diversa dalla sua. Con gli intolleranti le comunità umane si “tribalizzano”. Cosa significa diventare psicologicamente una tribù? La tribù indica un preciso passo della nostra storia evolutiva. La forza aggregante della tribù è la paura dell’altro, del diverso e dell’ignoto. La tribù aggrega le persone per far fronte a una minaccia che percepisce subito fuori dalla “palizzata” che la difende. Cosa succede alle altre tribù non è affare da considerare. Le “tribù”umane sono perennemente in guerra con le altre tribù solo per il semplice fatto che “le altre tribù” non sono “la loro tribù”. La questione centrale per tutti noi è come si affronta l’intolleranza, l’aggressione e la violenza degli altri quando si è maturato la scelta civile e consapevole della tolleranza e della convivenza pacifica? Un vero “collo di bottiglia” evolutivo sia della singola persona che di intere comunità. Strettoia che non si supera con leggi o decreti morali, ma con un aumento dell’empatia e delle abilità di relazione.
L’intollerante, che abbia 6 anni o 60 è sempre lo stesso: un bullo che ha subito sopraffazione in una condizione di eccessiva solitudine o isolamento relazionale e che di conseguenza ha adottato la violenza come strumento di relazione e di risoluzione per sopravvivere e ottenere ciò che considera un suo desiderio, un suo volere o un suo fine.
Finché l’educazione viene accompagnata dalla povertà e dall’ignoranza relazionale, incontrare “bulli” a tutte le latitudini sociali e a tutte le età è altamente probabile.
Ecco proprio qui sorge uno spartiacque esistenziale fondamentale. Esiste la possibilità di evolvere nella direzione di un pacifismo originato dall’abilità di scegliere d’interagire con gli altri in modo non violento e non sopraffacente. Noi siamo dotati di entrambe le alternative, quale via sceglierà la persona e l’umanità? Il lato oscuro, come racconta il famoso maestro Jedi di Star Wars, è facile e seducente e io aggiungo: retaggio della nostra evoluzione animale. La nostra animalità dominata dagli istinti ha guidato la nostra lotta per la sopravvivenza. La componente biologica-psicologica animale origina e scatena la lotta per le risorse e legittima la violenza. Non a caso in un altro momento cruciale della nostra storia si condensa il pensiero: “Il fine giustifica il mezzo” del famoso Nicolò Machiavelli.
La scelta non violenta della vita è frutto esclusivo della nostra evoluzione culturale. Essa emerge dalla consapevolezza di me che non è diverso dall’altro e dall’empatia che rende l’altro un riflesso di me, un “me diversamente dislocato”. La scelta non violenta della vita deriva da una crescita intenzionale e consapevole, ordinata da una conoscenza specifica e da una azione educativa precisa. Come solleva dire la grande Montessori: “tutti cercano la pace, ma chi educa veramente alla non violenza?” Essa emerge come frutto della capacità di entrare in contatto e operare uno scambio. Un contatto e uno scambio affatto casuali. Quattro sono le qualità di relazione che fanno la differenza. La prima consiste in un certo grado di intensità, purezza e durata dell’attenzione che la persona origina e dona all’altra persona. Questa intensità, durata e purezza dell’attenzione non sono ordinari o spontanei, ma deve essere educata-addestrata per essere raggiunta. La seconda qualità consiste nell’originare e impregnare in modo intenzionale e consapevole il flusso di attenzione con lo stato interiore di positività. La positività è una condizione dell’essere. Solo dopo viene precipita e si condensa la componete psicologica con un atteggiamento, un sentire, un pensare che manifestano l’identità positiva della persona. La terza qualità veicolata nel ponte della relazione è una autentica curiosità: chi è l’altro? Cosa vuole? Dove va? Che storia esistenziale tenta di scrivere? Come tenta di emergere? Qual’è il mio ruolo nella sua storia?…ecc. Nulla accade, o comunque nulla di buono, alle persone se sono indifferenti e disinteressate le une con le altre.
La quarta qualità che la persona matura usa per entrare in relazione è il suo valore che tocca e risvegliare il valore dell’altro. Eh si, cosa affatto semplice quando ci troviamo dentro ad un rapporto competitivo, perché può facilmente accadere che il proprio valore tocchi e accenda il disvalore dell’altro e viceversa: che il valore dell’altro ci faccia sentire noi di valere di meno. Il Risaltare il proprio valore nella forma capace di risaltare quello dell’altro è una abilità di relazione superiore che si apprende in una formazione di alta scuola. La presenza anche minima di questi elementi nella relazione è capace di condensare la stima e il rispetto tra due o più persone. Allora la non violenza non appare come una scelta, ma una naturale conseguenza, un effetto di una causa sottostante. Come la notte si dissolve con l’apparire del sole, così la formazione e lo sviluppo dell’intolleranza si ferma difronte a relazioni arricchite da queste quattro abilità umane. Questa dinamica oggi viene studiata e applicata in un metodo completo e strutturato (fa parte della formazione della Scuola delle Abilità di Podresca College).
Il pacifismo e la non violenza sono una scelta etica nobile, ma impotente se non impara ad affrontare l’intolleranza, l’aggressività e la violenza. Sopratutto diventa meschina se pretende una condizione non violenta senza fare nulla per maturarla. Esiste poi a mio avviso un pacifismo mascherato, subdolo che nasconde il vero volto sottostante dell’indifferenza, dell’egoismo, del narcisismo o peggio quello della paura, della viltà, dell’incapacità di difendere se stessi, gli altri, la società e l’umanità.
Ci vuole coraggio per difendere se stessi. Ci vuole il coraggio della società per difendere i suoi componenti più deboli e fragili aggrediti dall’intolleranza dei “bulli” sopraffacenti e prepotenti. Ci vuole il coraggio dell’essere, dell’individualità consapevole, che dopo aver riconosciuto e affermato la sua natura inclusiva e non violenta, sceglie di FERMARE l’intolleranza come si ferma una malattia. Come si ferma una malattia? Certamente non osservando passivi la sua opera distruttiva. Cos’ì è per la questione dell’intolleranza: non osserviamo passivi la sua opera distruttiva. Si può fermare l’intolleranza in molti modi, lo spettro delle azioni possibili è vasto, tuttavia una cosa è certa: la malattia dell’intolleranza non si ferma da sola e va fermata da ognuno di noi, nessuno escluso. Da chi soprattutto deve essere fermata? Da chi ha scelto la tolleranza come stile di vita. Sono i pacifisti che affrontano coraggiosamente il conflitto per fermarlo. Gli intolleranti alimentano il conflitto con uno stile assai diverso stando molto alla larga dallo stesso. Il pacifista dice: “Questo conflitto mi riguarda perché lo voglio fermare”. L’intollerante dice: “Questo conflitto non mi riguarda, il conflitto può continuare”. La qualità atta ad affrontare l’intolleranza già esiste e si chiama FERMEZZA. La fermezza è un fondamento educativo che deve essere acquisito, assieme all’amore che tende invece ad essere connaturato nel genitore. Amore e Fermezza* (dalla Collana Arte di Educare” di Silvana Tiani Brunelli, Podresca Edizioni) sono la coppia formidabile di abilità con cui le nuove generazioni, se ne saranno dotate, conquisteranno il futuro della nostra umanità.
Il principio di non ferire come strumento di relazione per evolverci in forme più complesse e collaborative non è una scoperta recente. Esso è noto sin dall’antichità e ci riguarda sempre e in ogni circostanza. Il difetto principale di questo principio è quello di essere usato con pesi e misure diversi. Il principio di non ferire e di non essere ferito è universale e non esiste mai una regione che legittimi un’aggressione. Esiste il diritto di difendersi, ma non quello di aggredire. Per la persona che ha maturato un gradiente significativo di empatia non può fare a meno di agire in questo modo. Tuttavia non possiamo ignorare un dato scientifico che caratterizza la nostra specie e l’architettura evolutiva di cui siamo parte. Secondo una stima la fauna è suddivisa in tre grande categorie: prede, predatori e parassiti. Essi possiedono un loro equilibrio nel ricoprire 1/3 ognuno. Anche tra di noi umani si presume che sia, di riflesso, in vigore una simile ripartizione delle tipologie che sono presenti in natura. È forse questa la ragione della difficoltà di affrancarsi dalle dinamiche sopraffacenti presenti nella storia della nostra vita sociale.
Fermare la malattia dell’intolleranza, nelle relazioni, nella società e nell’umanità non è tanto una questione morale, non è un’invenzione filosofica, ma è un inedito partorito dalla nostra evoluzione culturale. Si tratta di un bisogno intimo scaturito dalla nostra individualità consapevole. Senza un grado sufficiente di autoconsapevolezza domina la biologia e si finisce nel ricade nel gioco della preda, del predatore o del parassita. Maturato il grado di consapevolezza, l’individuo che è e sa di essere partorisce una visione della vita e delle relazioni che non trova nessun interesse nella violenza. Se si manca di soddisfare questo bisogno di vivere in pace con gli altri, il senso di colpa come un veleno intride la natura umana o una comunità intera facendola ammalare in modo fatale. La persona o una comunità non solo attiva una decadenza, ma cosa ancora più grave fallisce nel dare senso e valore alla vita stessa. Una vita degna di essere vissuta rispetta il principio di non essere lesivi verso gli altri. Anche se una maggiore e crescente consapevolezza è il punto dal quale iniziare essa non basta per agire. Per agire ci vuole il coraggio.
Il coraggio di agire del tollerante nei confronti dell’intollerante indica che non si è vili, egoisti o indifferenti, ma che si possiede l’amore, l’empatia e la responsabilità per l’altro, per la comunità e per l’umanità sufficienti per costruire e difendere un futuro comune migliore.
Se il tollerante non è capace di fermare la violenza dell’intollerante, se la pace non riesce a fermare la guerra, se la scienza non scioglie l’ignoranza, se la conoscenza non archivia la superstizione e i sistemi di credenza, se la consapevolezza della natura umana non elimina il conflitto d’interesse, se l’egoismo impedisce di cogliere tutto ciò che ci unisce, allora la tolleranza non può ancora essere considerata una conquista evolutiva e di conseguenza potremmo assistere a corsi e ricorsi della stessa storia che continua a ripetersi. La verità è che oggi, tolleranti e intolleranti coabitano e l’esame evolutivo della nostra specie non è ancora superato: Il tollerante deve ancora imparare ad agire per vincere l’intollerante. Solo la tolleranza capace di affrontare e fermare l’intolleranza risolve questo nodo evolutivo. Dobbiamo essere realisti, è improbabile che a breve tutti prendano posizione per essere gentili, non lesivi e scelgano lo strumento della comprensione e della collaborazione per realizzare i propri fini. Pur essendo ottimista, ammesso e non concesso che accada, penso che ci vorrà molto tempo prima che tutta l’umanità scelga la via della tolleranza e fermi progressivamente gli intolleranti recalcitranti della storia. La pace non è una chimera e non è dietro l’angolo. Prima che questo accada tutti noi dovremo conquistare in prima persona la tolleranza e poi dovremo imparare ad essere coraggiosi per affrontare l’intolleranza lesiva che ci circonda. L’aggressività e la violenza tra i generi, nelle famiglie, nella società e tra i popoli non va solo moralmente bandita, ma va fermata!
Solo il paradosso della tolleranza che ferma l’intolleranza risolverà il dolore inutile della vita.
Il problema è uno e lo stesso per tutti, ma scopriremo che le risposte possono essere tante quanto sono le persone.
Auguro a tutte le persone vicine e lontane di trovare la loro soluzione, la loro formula, sia per vivere in pace, abili ad essere inclusivi e tolleranti e sia per trovare la fermezza e il coraggio di fermare l’altrui volontà di essere sopraffacenti con gli altri.